Trovare Cristo nei sacramenti della Chiesa: non un imperativo, quanto piuttosto una constatazione quella che non a caso padre Ezio Casella, mutuandola da sant’Ambrogio, coniuga al presente indicativo nel titolo della sua ultima fatica di professore. Da qualche mese è in libreria il suo Ti trovo o Cristo nei tuoi sacramenti. Lezioni di teologia sacramentaria: penitenza, unzione degli infermi, ordine, matrimonio (Roma, Pontificio Ateneo Antonianum, 2018). Il nuovo manuale, nato dall’esperienza didattica del direttore dell’Ufficio Liturgico della Chiesa di Rieti all’Antonianum di Roma e ad Assisi, si pone l’obiettivo ambizioso di aiutare a riscoprire la liturgia attraverso il sacramento e il sacramento attraverso la liturgia come realtà dinamiche e a comprendere che proprio la lex orandi è il terreno fertile su cui la lex credendi può dare il frutto di una rigenerata lex vivendi.
Nel pomeriggio di sabato 3 novembre il libro è stato presentato nella splendida cornice reatina dell’Auditorium Varrone, l’antica chiesa di Santa Scolastica che per l’occasione ha visto convenire un folto pubblico fatto di presbiteri, religiosi e religiose, amici e parenti di padre Ezio, ma soprattutto tanti fedeli della diocesi reatina che hanno avuto modo di apprezzare la delicatezza, il tratto umano e la competenza del frate minore. A gettare luce sulle problematiche non certo semplici che il libro affronta è giunto dalla diocesi di Latina don Pasquale Bua, il professore della Gregoriana del cui nome dovremo ricordarci quando, nei prossimi mesi, sarà dato alle stampe per i tipi della romana Studium il ricco volume da lui curato su Roma, il Lazio e il Vaticano II. Preparazione, contributi, recezione, nel quale saranno ripercorse anche le vicende pre e postconciliari della nostra Chiesa particolare.
Con accademica puntualità ed eloquio pacato, don Pasquale ha guidato i presenti in un viaggio affascinante e tutt’altro che pedante o astruso (idee, purtroppo, spesso associate alla dimensione liturgica nella percezione generale) lungo tre direttrici. La prima ha valorizzato una giusta intuizione di padre Casella, quella che lo ha portato a inquadrare preliminarmente la sua trattazione dei quattro sacramenti indicati nel sottotitolo dell’opera all’interno di un profilo essenziale e tuttavia completo di sacramentaria fondamentale. Esso sviluppa l’idea che i sette sacramenti costituiscano le articolazioni del «grande sacramento» rappresentato dalla Chiesa stessa, a sua volta promanante dal sacramento primordiale che è Cristo. Muovendosi disinvoltamente fra patristica, scolastica, costituzioni e teologia conciliari, Bua ha poi insistito sull’opzione compiuta con nettezza dall’autore di illuminare i sacramenti a partire dai riti. Casella fa propria l’istanza di rinnovamento dell’odierna teologia liturgica e sacramentaria, che reclama il superamento di un’impostazione asfittica ed esclusivamente concettuale, spesso dimentica del fatto che i sacramenti non esistono se non in quanto celebrati. In ciò padre Ezio ha tratto ispirazione dal “metodo” dei Padri della Chiesa, che spiegavano i sacramenti non dalla cattedra scolastica ma da quella episcopale, non in aula ma in chiesa, non a studenti ma ai loro fedeli. Essi non elaboravano difficili teorie, ma spiegavano i simboli e le parole (gesta et verba) della liturgia, aiutando i credenti a comprenderne i significati più profondi e a vivere i riti con consapevolezza e trasporto per lasciarsene trasformare. Pur non rinunciando alla precisione dell’argomentazione logica, padre Ezio ha quindi preferito la via mistagogica di una catechesi intra ipsa mysteria.
Una teologia così intesa, «in ginocchio» e non «a tavolino», è esattamente il paradigma che papa Francesco non si stanca di richiamare nel suo magistero sacramentale: una riflessione sui misteri della fede, cioè, nutrita direttamente dalla preghiera, ancorata al vissuto celebrativo, e poi trasfusa nell’impegno evangelizzatore della Chiesa. E proprio su questa linea, sviluppata citando abbondantemente da testi ormai noti ma forse ancora poco metabolizzati come la Evangelii gaudium, la Misericordia et misera e la Amoris laetitia, si è dipanato il terzo movimento del discorso di don Pasquale Bua, che giustamente ha sfatato il mito della presunta scarsa sensibilità dell’attuale pontefice per la liturgia a tutto vantaggio dell’evangelizzazione. Proprio la connotazione festosa del concetto bergogliano di «Chiesa in uscita» è il migliore argomento a favore della stretta connessione dei due temi nel pensiero del papa, il quale vede l’evangelizzazione gioiosa farsi bellezza nella liturgia «in mezzo all’esigenza quotidiana di far progredire il bene. La Chiesa evangelizza e si evangelizza con la bellezza della liturgia, la quale è anche celebrazione dell’attività evangelizzatrice e fonte di un rinnovato impulso a donarsi» (EG 25).
Un pomeriggio denso di contenuti, dunque, eppure leggero, costantemente sospeso tra conferenza impegnata ed elevazione spirituale grazie alla sensibilità dei relatori, complici anche gli inserti musicali assicurati dal coro diocesano, la Schola Cantorum «Chiesa di Rieti», e dal Coro Valle Santa. La speranza è che il pubblico abbia lasciato l’auditorium con la conferma di una consapevolezza necessaria ma troppo spesso data per scontata: la liturgia si comprende e si ama “per immersione”, sprofondandoci dentro e lasciandosi interpellare da questa esperienza “totale”, che coinvolge l’intelligenza e il cuore, la ragione e i sensi. Questa è stata anche l’idea di fondo dell’intervento iniziale del vescovo Domenico, che ha firmato l’introduzione al volume. Tra le varie suggestioni offerte da Pompili, anzitutto quella secondo cui il movimento liturgico dell’inizio del secolo scorso e poi tutto il rinnovamento conciliare sarebbero stati, tra l’altro, una risposta all’individualismo sempre più marcato promosso dalla cultura politica liberale, tutto centrato sul linguaggio dei diritti e dei doveri del singolo e proteso a rinchiudere la religione entro il recinto della pura interiorità della coscienza, negandone i risvolti pubblici e comunitari. Di qui l’esortazione a recuperare la dimensione pubblica e relazionale della fede che proprio nella liturgia si manifesta al massimo grado e a celebrare non in modo «morto, inautentico ed elitario», bensì «vivo, autentico e popolare».
Certo, i rilievi del vescovo indurrebbero a soffermarsi anche su altri individualismi: per esempio quelli dell’assemblea celebrante, che vorrebbe una liturgia concepita a suo uso e consumo, e soprattutto, purtroppo, quelli di chi presiede, di chi si arroga il diritto di decidere cosa è vivo e cosa è morto, cosa è autentico e cosa non lo è, cosa è popolare e cosa è elitario, per lo più senza appoggiarsi alla sapienza della Chiesa e assecondando invece il proprio ego, la propria emotività, la propria fretta. In questo senso, se è vero che – per usare le parole di Pompili – un nuovo libro di liturgia «non è una notizia da far accapponare la pelle», lo è altrettanto che, senza sforzi generosi di approfondimento come quelli di padre Casella e senza una loro adeguata ricezione, presto o tardi a far accapponare la pelle sarà la liturgia stessa. Magari questo, caro Ezio, potrebbe essere l’argomento per un altro libro.